In occasione della Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne, celebrata il 25 novembre 2020, il Presidente Mattarella ha rilasciato una dichiarazione dove mette in luce come il fenomeno non smetta «di essere un’emergenza pubblica» e continui ad occupare «ancora troppo spesso le nostre cronache», tale da offrire «l’immagine di una società dove il rispetto per la donna non fa parte dell’agire quotidiano delle persone, del linguaggio privato e pubblico, dei rapporti interpersonali». Tale significativa dichiarazione, mirata a far riflettere sul grave fenomeno della violenza sulle donne a tutto tondo, di per sé rispecchia purtroppo una realtà con cui fare i conti e non solo in riferimento alle culture, come quella islamica, dove le donne sono considerate esseri inferiori rispetto agli uomini e sulle quali, perfino per legge ‒ applicando due pesi e due misure ‒, si può infierire. A livello globale infatti, e nella nostra società occidentale che vanta di aver raggiunto importanti obiettivi circa le pari opportunità (vero) e celebra il “progresso” dell’era contemporanea ‒ volendo sottintendere in questa idea di progresso il traguardo dell’autodeterminazione (cui ci stiamo nocivamente avvicinando sempre più), e maggior benessere e democrazia (molto meno vero, se non falso) ‒, la violenza contro le donne è non solo “un’emergenza pubblica” ma anche e soprattutto una radice di male che a tutti gli effetti appare inestirpabile. Mi sembra che su questo punto si apra una voragine, nonché un campo di battaglia per la discussione, che non verrà né colmata né vinta facilmente, nemmeno dalla “retorica delle parole vuote” che oramai ha inquinato anche una giornata celebrativa come questa. Per inciso, se pensiamo che è bastata la morte di un calciatore inneggiato come un “dio” e come un “re” per mettere la “Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne” in secondo piano su tutte le emittenti e le testate giornalistiche nazionali e internazionali, fatto che peraltro ha comportato anche inopportuni assembramenti della tifoseria in questo tempo di pandemia, dobbiamo onestamente riconoscere, senza nulla togliere al beneamato campione, che il problema della violenza sulle donne è meno sentito di quello della scomparsa di un idolo del calcio, per il quale sono stati indetti lutti cittadini e nazionali. Ma per le donne massacrate niente lutto ufficiale?
Altra importante sottolineatura della nota presidenziale riguarda la casistica, ampia, che declina la violenza di genere, la quale «non si esprime solo con l’aggressione fisica, ma include le vessazioni psicologiche, i ricatti economici, le minacce, le varie forme di violenza sessuale, le persecuzioni e può sfociare finanche nel femminicidio». Alla lista della casistica, contenuta per ovvi motivi nel contesto di una dichiarazione che presenta già molti argomenti su cui riflettere, aggiungiamo tuttavia senza indugio l’utero in affitto, che vede due categorie di donne brutalmente sfruttate per soddisfare i desideri egoistici delle coppie omosessuali (la donatrice di ovocita e la locatrice di utero), l’infanticidio femminile, barbaramente praticato in Cina, così come il mobbing sul lavoro, molto più diffuso di quanto si pensi, e ogni forma di programmatica mancanza di rispetto verso una donna, il cui movente sta nel suo essere “donna” e nel suo essere “femmina”. Ma come mai l’utero in affitto non è visto come una violenza verso le donne (e non c’è dubbio che lo sia) e invece è difeso e preteso come “diritto” da una schiera di politici chiaramente affiliati alle lobby mondiali lgbt?
Ma andiamo ancora avanti con la risonanza delle importati parole pronunciate da Mattarella per questa Giornata. Si legge nella nota che «alla base di tutte queste forme di violenza vi è l’idea dissennata e inaccettabile che il rapporto tra uomini e donne non debba essere basato su di un reciproco riconoscimento di parità». Anche qui si apre una voragine immensa, proprio sul significato intrinseco di questa “parità” che nel senso vulgato è intesa fondamentalmente in questo modo: 1) ogni mansione e ruolo può essere svolto tanto dagli uomini quanto dalle donne (e, aggiungo convintamente, forse anche meglio dalle danne in alcuni casi); 2) la donna è totalmente padrona di se stessa, dal corpo all’anima, e ciò viene affermato sull’onda anomala dell’autodeterminazione cavalcata dalle stesse lobby di cui sopra e dalla maggior parte dei movimenti femministi, che pur sono stati fondamentali per la conquista e il riconoscimento di importanti diritti (ma non tutte le ciambelle vengono col buco).
Tiriamo dunque le somme di questa riflessione e proviamo a dare un contributo che porti il lettore a farsi almeno qualche domanda. Ad esempio, sul significato di “parità” e di “rispetto” evocati dal Presidente, ma anche sull’aporia che emerge, molto nitidamente a mio avviso, tra l’idea corrente di “progresso” e i frutti marci che in questa società continuiamo a ingurgitare, molto spesso proprio come conseguenza di questo genere di progresso. Insomma, evidentemente non quadra e sfugge qualcosa se il progresso, scientifico, tecnologico, medico, economico e giuridico, doveva portare al benessere sociale e all’avanzamento dell’umanesimo, e invece stiamo assistendo all’espansione, alla cancrena e alla recrudescenza delle piaghe che affliggono una società sofferente come la nostra, tra cui la violenza contro le donne (ma anche quella contro gli uomini e i bambini, se andiamo a spalancare le porte degli inferi terreni nei quali viviamo).
Parità e rispetto: i due concetti vanno senza dubbio a braccetto. Ritengo innanzitutto che intendere la parità tra sessi nel senso summenzionato sia una strada senza via d’uscita, quel vicolo cieco maledetto da cui si può solo tornare indietro se si vuole andare avanti. Tale convinzione nasce dalla consapevolezza che il basilare «reciproco riconoscimento di parità», richiamato dal Presidente, non coincida con le “pari opportunità”, quelle che prevedono ad esempio le quote rosa e che favoriscono «la libertà […] e la capacità di affermazione» con le quali le donne possono «realizzare la propria personalità» ma che, secondo il Presidente, vengono ancora disconosciute da una «radicata concezione». A prescindere dal fatto che le donne hanno invero raggiunto una libertà e un’affermazione senza pari in tutti i settori lavorativi e nei ruoli più prestigiosi, appare riduttivo pensare in tal senso un concetto così alto e profondo come la “parità” tra uomo e donna e, conseguentemente, quello del “rispetto” che ha ragion d’essere solo nella reciprocità. Le idee di libertà e di affermazione della donna puntano ad un equiparato status sociale, che nella società occidentale è di fatto per fortuna raggiunto, benché ci sia ancora del lavoro da fare, ma esse non entrano nell’essenza della vera parità tra sessi, che è ontologica e non così esterna e, se vogliamo, contingente, poiché dipenderebbe dagli accidenti storici e culturali.
Il fondamento della parità tra uomo e donna è ben più profondo e lo troviamo sia nel racconto delle origini nel libro della Genesi (“maschio e femmina li creò”, Gn 1,27, e “un aiuto che gli sia simile”, Gn 2,18) sia proprio in uno dei più vilipesi passi delle lettere di Paolo (“le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore”, Ef 5,22, di cui si cita sempre solo fino a “mariti” per aggredirlo) che è stato recentemente oggetto di una critica feroce ‒ a partire dall’articolo apparso su Cronache Maceratesi‒ da parte dei detrattori dei valori e degli insegnamenti cristiani e dei diritti umani non negoziabili, quali il diritto a nascere, il diritto di ogni bambino ad avere un padre e una madre, il diritto dei genitori di educare i propri figli, eccetera. Si è trattato di una critica a don Andrea Leonesi che possiamo senza indugio classificare come superficiale e fortemente connotata da ignoranza della Sacra Scrittura da parte di chi è stato tuttavia solerte a dare lezioni bibliche e teologiche su un versetto che, in primo luogo, può essere unicamente compreso nella sua profondità e verità nel contesto dei versetti precedente e seguenti dell’intero passo della lettera agli Efesini (i vv. 21 e 23-33). Tuttavia, i teologi improvvisati per l’occasione, appartenenti a varie categorie ‒ dai politici ai comuni cittadini, dagli studiosi di un certo livello agli studenti ‒, si sono dimenticati di citare, come c’era da aspettarsi d’altronde, proprio quei versetti che ne danno la chiave interpretativa. In secondo luogo, il versetto è stato accostato, in maniera semplicistica e impropria, proprio alla nostra emergenza sociale per la quale il 25 novembre si celebra una giornata dedicata. Appare ovvio, a chi ha una preparazione cristiana, che la violenza sulle donne e i femminicidi non hanno nulla a che fare con l’invito di Paolo alla “sottomissione” della moglie al marito, anche perché sin dal versetto precedente è chiaro che la sottomissione di cui si parla, il cui significato non è peraltro quello inteso da questi fortuiti “esperti” della Bibbia, deve essere reciproca. Dai versetti che seguono, inoltre, appare lampante quale tipo di rapporto coniugale leghi moglie e marito che realizzano pienamente, in quell’unione in Cristo, l’amore totalizzante di Dio per l’uomo. Ma l’ignoranza ha portato purtroppo ad affermare bestialità, diffuse tramite programmi televisivi e testate giornalistiche, circa il rapporto tra sottomissione della donna e violenza, mai intese nelle lettere di Paolo e nemmeno nell’economia del Vangelo. Del resto, abbiamo una parola assai più autoritaria che conferma tale azzardato dilettantismo, quella dell’apostolo Pietro, che nella sua seconda lettera afferma di Paolo: «così vi ha scritto anche il nostro carissimo fratello Paolo, secondo la sapienza che gli è stata data, come in tutte le lettere, nelle quali egli parla di queste cose. In esse vi sono alcuni punti difficili da comprendere, che gli ignoranti e gli incerti travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina» (2Pt 3,15b-16). Occorre studiare prima di parlare di ciò che non si conosce, e quantomeno fare un percorso di iniziazione cristiana per entrare nell’economia della parola divina, e di conseguenza si capirà che quel «reciproco riconoscimento di parità», auspicato da Mattarella, viene massimamente catalizzato proprio da quella tipologia di rapporto umano, suggerita da Paolo e che emerge dal Vangelo. Allora sì che, in questa realizzazione di rapporto, la radice di male che spinge alla violenza sulle donne può iniziare a indebolirsi per essere estirpata. Ma se non si comprende questo non c’è scampo, si continuerà ogni anno, il 25 di novembre, ad affermare come un mantra che bisogna estirpare questo male che colpisce profondamente la società. La sua radice, infatti, non sta tanto nella «concezione tesa a disconoscere la libertà delle donne e la loro capacità di affermazione», che deriva da tipologie di organizzazione sociale come il patriarcato e dalle sue derive, quanto nella qualità del rapporto uomo-donna che l’innovazione cristiana ha rivoluzionato e che rappresenta una garanzia di progresso umano proprio perché basato su un concetto di rispetto senza pari nella storia dell’uomo, quello che fa vedere l’altro attraverso gli occhi di Cristo. Se di Nuovo Ordine Mondiale si vuole proprio parlare, se ne parli almeno in tal senso, a beneficio di tutti.
È questa la “battaglia culturale” da portare avanti nel XXI secolo, l’affermazione del cristianesimo e dei suoi valori come rivoluzione veramente umanistica, l’unica capace di mettere le ali all’essere umano per fargli raggiungere le vette più alte della dignità, della parità e del rispetto, e non idee malsane come l’autodeterminazione e la deriva inumana del preteso diritto, inaccettabile in una società civile, di uccidere i propri figli nel grembo, o di affittare un grembo pur di averli, proprio in nome di quell’autodeterminazione che rende totalmente ciechi dinanzi al rispetto della vita umana in tutte le sue fasi evolutive, a partire dal suo concepimento. Come si può auspicare o solo pensare ad un rispetto per la donna (e viceversa per l’uomo) se non si ha rispetto per la propria progenie? Altro che parità e rispetto reciproci. Se si continua a viaggiare su questo binario, l’auspicio del Presidente rimarrà per sempre pura utopia e l’eredità della società del 2000 ai posteri sarà un pensiero debole che ha miseramente fallito l’obiettivo del progresso umano e sociale a motivo della sua idolatrica autodeterminazione e supponenza laicista, ben lontana dalla laicità, la quale non implica affatto l’ateismo.

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