Spesso imputiamo il degrado delle testimonianze architettoniche d’epoca romana, all’ingiuria del tempo, agli eventi sismici, all’abbandono e all’incuria. Ci sono invece, due altri aspetti che sono spesso trascurati, probabilmente perché sconosciuti ai più e sono il reimpiego (del quale parleremo profusamente in un prossimo articolo) e il riciclo.
Quando in Italia cominciarono le invasioni barbariche, i municipi e le colonie romane che sorgevano essenzialmente (ma non esclusivamente) in pianura, furono abbandonati dai residenti che si trasferirono sulle colline dove rifondarono città ritenute più sicure e meglio difendibili. Nelle nostre splendide Marche, questo fenomeno è particolarmente visibile: i bellissimi borghi collinari ancora conservano l’impianto medievale che li rende così affascinanti. I vecchi insediamenti quindi, furono rapidamente dimenticati ma non da tutti; qualcuno infatti, intravide nel loro sfruttamento nuove opportunità di lavoro. Fu così che nacque una nuova categoria di artigiani: i calcinatori.
Costoro non facevano altro che raccogliere statue, colonne, capitelli, erme, lapidi e quant’altro fosse in marmo o travertino, per ridurli in pezzi e cuocerli ad alta temperatura in forni detti calcare o calcinaie per ricavarne calce da vendere principalmente nel circuito del settore edilizio. Già dal X secolo, i governanti e più tardi i comuni, ai quali in teoria appartenevano le rovine, cercarono di regolamentare tale attività in parecchi modi: tassando i calcarari in base al materiale calcinato, permettendo loro di raccogliere soltanto le parti crollate, vietando il prelievo dei marmi sepolcrali, consentendo il prelievo dei materiali soltanto dai templi rurali e così via. In realtà, le rovine non interessavano nessuno. Presto i calciaiuoli vi s’insediarono con le famiglie, tanto che nelle cronache medievali, si legge che i viaggiatori che passavano accanto alle rovine di Sentinum o di Forum Semproni, piuttosto che a quelle di Potentia o Helvia Recina, scorgevano schiere di bambini che giocavano sui palcoscenici erbosi dei teatri romani, donne che spandevano i panni su corde tese tra le colonne dei templi e animali che pascolavano tra i resti delle ville o dormivano stravaccati sui mosaici delle basiliche e delle terme. Tutto ciò, mentre l’aria si saturava dei colpi di picconi e mazzette, utilizzati per frantumare i materiali che sarebbero poi finiti nelle calcare.
Questi forni da calce erano formati da una struttura di pietre o comunque materiale resistente alle altre temperature che si riempiva con i frammenti di marmo e travertino. Al di sotto si accendeva un fuoco di legna che andava continuamente alimentato per una settimana circa, raggiungendo temperature comprese tra gli 800° e i 1000°. Così trattate, le rocce calcaree perdevano anidride carbonica trasformandosi in ossido di calcio, meglio conosciuto come calce viva. Opportunamente trattata con acqua, essa diventava calce spenta.
I calcari erano costantemente coperti da una polvere bianca e fine che entrava nei polmoni, irritava gli occhi e bruciava le mani; morivano rapidamente di consunzione provocata dalla silicosi. Il lavoro era quindi pericoloso e piuttosto duro; richiedeva una certa prestanza fisica e un’abnegazione notevole, dato che i forni andavano seguiti giorno e notte per non far scendere la temperatura.
Intorno al 1500 tale attività si ridusse notevolmente, sia per mancanza di materiale sia per il fatto che si cominciò a rivalutare le testimonianze delle passate civiltà, riscoprendo i classici latini e greci grazie all’Umanesimo. Le rovine degli insediamenti romani, cominciarono ad essere apprezzate e preservate, grazie soprattutto al lavoro di Ciriaco Pizzecolli, marchigiano nato ad Ancona, considerato internazionalmente il padre fondatore dell’archeologia. Egli scriveva: – Spinto da un forte desiderio di vedere il mondo, ho consacrato e votato me stesso, sia per completare l’investigazione di ciò che ormai da tempo è l’oggetto principale del mio interesse, cioè le vestigia dell’antichità sparse su tutta la terra, sia per poter affidare alla scrittura quelle che di giorno in giorno, cadono in rovina per la lunga opera di devastazione del tempo a causa dell’umana indifferenza.